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Quando ci troviamo a dover affrontare le espressioni idiomatiche, la traduzione letterale non è quasi mai la scelta vincente.

Per quale motivo?

Perché i “modi di dire” hanno una forte connotazione culturale.

Un esempio?

Il “can che dorme” italiano diventa il “gatto che dorme” francese.

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4 lingue di lavoro, 4 frasi idiomatiche completamente diverse per esprimere lo stesso concetto: che quello di cui stiamo parlando non succederà mai, a meno che…

– i maiali non imparino a volare (inglese)

– gli asini non siano in grado di volare (italiano)

– non spuntino i denti alle galline (francese)

– non crescano i capelli alle rane (spagnolo)

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Anche tu divori un libro dopo l’altro?

Quella del topolino chiuso in una biblioteca a rosicchiare pagine è un’immagine che accomuna diverse lingue neolatine.

Analogamente all’espressione italiana “topo da biblioteca” o “topo di biblioteca”, possiamo infatti trovare, con accezione più o meno negativa, “rat de bibliothèque” in francese, “ratón de biblioteca” in spagnolo e “rato de biblioteca” in portoghese.

In questo caso, il tedesco fa un po’ da “ponte” tra le lingue neolatine e il mondo anglofono, riprendendo sia la figura del topo avido lettore (“Leseratte”) sia quella del tarlo dei libri (“Bücherwurm” in tedesco e “bookworm” in inglese).

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Quanto si può essere testardi?

Come un mulo… che è sì un gran lavoratore, ma dimostra anche di avere una bella “testa dura” (il che non è per forza un difetto!).

Figlio di mamma giumenta e papà asino, il mulo può vantare due enormi pregi: la forza del cavallo e la tenacia dell’asino.

La sua non è cieca testardaggine, ma un forte istinto di autoconservazione in risposta a quelle che percepisce come minacce.

In inglese questa caratteristica cocciutaggine viene estesa anche a maiali e tori.
In francese e spagnolo, soltanto ad asini, asine e mule.

Ma chissà quanti altri animali vengono associati alla testardaggine nel mondo!

È sempre affascinante scoprire come ogni lingua rispecchia un modo diverso di vedere il mondo e di coglierne le peculiarità.

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Ed ecco un’espressione che mette d’accordo diverse lingue: le lacrime di coccodrillo.

Ma cosa significa “piangere lacrime di coccodrillo” o “versare lacrime di coccodrillo”?
Si riferisce a chi commette di proposito una cattiva azione che arreca danno o dolore ad altri, e poi finge di pentirsi, oppure se ne pente realmente, ma in ritardo.
L’espressione può però essere utilizzata anche nei casi in cui il danno arrecato ricade proprio su chi l’ha provocato, sottintendendo che l’interessato/a avrebbe potuto e/o dovuto prevedere le conseguenze delle proprie azioni.

E perché proprio “lacrime di coccodrillo”?
Questo modo di dire trae origine dal mito secondo cui i coccodrilli verserebbero lacrime di pentimento dopo aver ucciso e divorato le loro prede.
Si narra che ciò avvenga quando questi grossi rettili si cibano di prede umane o quando le femmine divorano i propri piccoli (dopo averli presi in bocca per metterli al sicuro).

Tuttavia, studi dimostrano che l’uomo è l’unica specie nota a produrre lacrime emotive.
Il che smentisce quindi la leggenda del coccodrillo pentito.

La lacrimazione dei coccodrilli, che diventa copiosa durante la masticazione e se rimangono a lungo fuori dall’acqua, ha in realtà una funzione puramente fisiologica di lubrificazione del bulbo oculare e di espulsione dei sali accumulati nell’organismo.

Da qui, il nome popolare “lacrime di coccodrillo” per indicare la “sindrome di Bogorad”, un disturbo che causa lacrimazione associata alla masticazione.

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